di Anna Gagliardi
L'articolo è disponibile sull'ultimo numero di Mondo Agricolo, cartaceo e on line
Il riso italiano chiude un’annata difficile: si sta raccogliendo in campo, ma tanti agricoltori non possono farlo a causa della siccità e altri hanno problemi per la minore produzione a causa della crisi idrica, che quest’anno è stata imponente. Si parla di 23.000 ettari in meno soltanto nella Lomellina, 3.000 nel Novarese e altri raccolti andati completamente persi. I risicoltori, anche a causa dell’aumento dei costi dei fertilizzanti, dei principi attivi e per l’essiccazione, hanno abbandonato 9.000 ettari convertendoli in coltivazioni come soia, girasole, mais. “Questa è già stata una grande perdita, perché abbiamo un mercato in espansione – commenta il presidente dell’Ente nazionale Risi, Paolo Carrà -, e non è tutto perché mancano 26.000 ettari di raccolto tra Piemonte e Lombardia a causa della siccità. In più, l’andamento climatico ha colpito a macchia di leopardo e ha influito sulle rese agronomiche e alla trasformazione, in particolare sulla qualità delle prime varietà raccolte. Questo ha determinato ulteriori danni”. “Stiamo chiudendo una campagna difficile che avrà risvolti anche commerciali, - aggiunge il direttore dell’ENR, Roberto Magnaghi - perché non avremo merce da fornire a un mercato che negli ultimi dieci anni ha aumentato di 100mila tonnellate il consumo di riso in Italia”.
I numeri di questa stagione parlano da soli. Tutto ciò che cosa comporta?
M: “Questo fa perdere di competitività. Certo non avremo importazioni di Carnaroli, Arborio, Baldo. Ma per il Lungo A da parboiled, il Lungo B da insalata e per risi Tondi, certamente l’industria di trasformazione dovrà ricorrere al prodotto di importazione per poter rispettare i contratti già stipulati”.
C: “Teniamo poi conto che anche il riso da Paesi terzi ha un costo di trasporto di sicuro non a basso prezzo. Si pensi ad esempio all’Indica: oggi ha una quotazione che si mantiene comunque alta sul mercato italiano”.
La clausola di salvaguardia è scaduta a gennaio scorso, dopo tre anni di tregua in cui era stato imposto il pagamento di una tassa per il riso importato in Europa da Cambogia e Myanmar. Da gennaio ad oggi che cosa è successo sul fronte delle importazioni?
M: “In questa campagna abbiamo già importato a dazio zero 500mila tonnellate di riso da Cambogia e Myanmar. Così però non può continuare. Noi dobbiamo dare credibilità al nostro prodotto italiano e ritornare ad essere l’orgoglio europeo, visto che siamo i primi in Europa e dobbiamo continuare ad esserlo”.
C: “Sul fronte politico chiediamo misure efficaci. L’introduzione della clausola di salvaguardia richiede tempi molto lunghi, in un mercato in costante evoluzione. Il Nord Europa non vuole automatismi, mentre il Sud Europa, che annovera i Paesi produttori, spinge per una modifica al Regolamento e una sostanziale semplificazione delle norme. Inoltre noi chiediamo che la riforma contempli i danni agli agricoltori, e non solo all’industria, come accade oggi.
Quali consigli dare ai risicoltori per il prossimo futuro?
M: “È importante un’unità generale del settore. Le associazioni irrigue, in questo momento, devono dare risposte concrete ai produttori. Noi, come Ente, ci siamo in un certo senso proposti come cabina di regia con le Regioni Piemonte e Lombardia, abbiamo riunito le associazioni agricole in presenza di quelle irrigue, perché vogliamo capire come potrà essere gestita l’acqua. Abbiamo già avuto una riunione con i risicoltori e ne avremo un’altra entro fine anno, perché vogliamo dare indicazioni precise di come potrà essere gestita la risorsa idrica, ammesso che ci sia, e, in generale la prossima campagna di semina. Il nuovo incontro sarà allargato ad altri soggetti istituzionali e al mondo scientifico per la definizione e l’illustrazione di azioni concrete in favore di una ripresa della risicoltura nazionale.
Con la nuova Pac che cosa cambia per il comparto?
M: “Ci siamo avvicinati con una sorta di speranza perché con la riduzione del 30% dell’aiuto diretto siamo riusciti ad avere un aiuto accoppiato importante, ma, ahimé, il Mipaaf negli ultimi giorni prima della consegna del Piano Nazionale ha voluto legare questo aiuto accoppiato all’utilizzo di sementi certificate. Nulla in contrario alla semente certificata, anzi, ma quest’obbligo, secondo noi, in un settore che giù usa l’80% del seme certificato per la sua superficie non potrà che creare un aumento dei prezzi sul prodotto agricolo, che poi sarà trasferito sull’industria di trasformazione, la quale già oggi, a causa dei prezzi alti, incontra delle difficoltà con il prodotto di importazione”.